Etichetta o diagnosi? Perché la differenza cambia la vita (e le scelte)
Nelle neurodivergenze (autismo, ADHD, DSA, plusdotazione) si confondono spesso etichetta e diagnosi. Due parole simili, ma con effetti molto diversi su persone, famiglie e scuola/lavoro. In breve: l’etichetta riduce, la diagnosi orienta.
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Che cos’è un’etichetta
Per “etichetta” intendiamo un giudizio rapido, spesso basato su stereotipi o su poche informazioni (“è svogliato”, “è oppositivo”).
- È generica e non contestualizzata (manca il “quando, come, con chi”).
- Non indica cosa fare (nessuna strategia o passo successivo).
- Schiaccia l’identità su un tratto (“sei…”) invece di descrivere un comportamento osservabile.
- Può aumentare stigma e auto-limitazioni.
Che cos’è una diagnosi
La diagnosi clinica è un processo strutturato che integra fonti diverse per comprendere il funzionamento globale di una persona e proporre azioni concrete.
Di cosa si compone
- Colloqui clinici e raccolta anamnestica
- Osservazioni nei contesti significativi (quando possibile)
- Test e questionari standardizzati adatti all’età e all’obiettivo
- Integrazione dei dati e restituzione con un linguaggio chiaro
- Piano operativo: accomodamenti, strategie, invii, follow-up
Una buona diagnosi non “incolla” un nome addosso: descrive pattern, punti di forza e bisogni, delineando un percorso concreto.
Differenze in sintesi
Etichetta
- Rapida, generica, spesso valutativa
- Descrive la persona in modo statico
- Non offre indicazioni operative
- Aumenta stigma e conflitti
Diagnosi
- Processo metodico e condiviso
- Descrive il funzionamento in relazione al contesto
- Fornisce strategie e priorità d’intervento
- Promuove collaborazione e diritti (scuola/lavoro)
Due vignette cliniche
Marco, 9 anni. “È svogliato.” A scuola fatica ad avviare i compiti e “si perde” nelle consegne lunghe. La diagnosi evidenzia difficoltà nelle funzioni esecutive (pianificazione, memoria di lavoro). Risultato: consegne spezzate, checklist visive, tempi mediati. In tre mesi cala l’ansia, aumentano autonomia e partecipazione.
Sara, 32 anni. “È disorganizzata e ipersensibile.” La diagnosi chiarisce un profilo Au-ADHD con sovraccarico sensoriale. Risultato: accomodamenti in ufficio (cuffie, pause strutturate), pianificazione a blocchi, supporto psicoeducativo. Migliorano performance e benessere.
Perché la diagnosi non è un’etichetta (anche quando ha un nome)
- Accesso a tutele (PEI/PDP, accomodamenti ragionevoli, agevolazioni quando previste)
- Linguaggio comune tra famiglia, scuola, servizi e lavoro
- Monitoraggio: obiettivi chiari, verifiche nel tempo, aggiustamenti
La differenza è l’uso del nome: se diventa un destino, è etichetta; se apre strade, è diagnosi.
Come comunicare una diagnosi in modo rispettoso
- Persona prima della diagnosi (“persona con…”, non “è…”)
- Punti di forza e bisogni insieme
- Comportamenti osservabili e contesti (quando, dove, con chi)
- 2–3 priorità operative, realistiche, con tempi e criteri di verifica
Quando è utile richiederla
- Dubbi persistenti su apprendimenti, attenzione, regolazione emotiva o comportamenti
- Difficoltà che non migliorano con interventi generici
- Necessità di documentazione per percorsi scolastici o aziendali
- Desiderio di capire meglio se stessi e trovare strategie sostenibili
Domande frequenti
La diagnosi è un’etichetta?
No. È uno strumento per comprendere e scegliere interventi e accomodamenti adeguati.
Serve sempre il test?
Dipende dal caso: test e questionari aiutano a oggettivare, ma si valuta sempre l’obiettivo clinico.
È utile anche da adulti?
Sì: chiarisce il profilo, guida accomodamenti e strategie, riduce il senso di colpa.
Online o in presenza?
Colloqui e restituzioni possono essere online; molti test richiedono la presenza.
Hai bisogno di una diagnosi chiara?
Valutazione clinica completa con strumenti validati, restituzione scritta e indicazioni pratiche. A Modena e online.
Take-away: l’etichetta chiude, la diagnosi apre. Conoscere bene il funzionamento permette interventi efficaci e accomodamenti sostenibili.