Etichetta o diagnosi? Perché la differenza cambia la vita (e le scelte)

Etichetta o diagnosi? Perché la differenza cambia la vita (e le scelte)

Nelle neurodivergenze (autismo, ADHD, DSA, plusdotazione) si confondono spesso etichetta e diagnosi. Due parole simili, ma con effetti molto diversi su persone, famiglie e scuola/lavoro. In breve: l’etichetta riduce, la diagnosi orienta.

Tempo di lettura: 6 minuti

Che cos’è un’etichetta

Per “etichetta” intendiamo un giudizio rapido, spesso basato su stereotipi o su poche informazioni (“è svogliato”, “è oppositivo”).

  • È generica e non contestualizzata (manca il “quando, come, con chi”).
  • Non indica cosa fare (nessuna strategia o passo successivo).
  • Schiaccia l’identità su un tratto (“sei…”) invece di descrivere un comportamento osservabile.
  • Può aumentare stigma e auto-limitazioni.

Che cos’è una diagnosi

La diagnosi clinica è un processo strutturato che integra fonti diverse per comprendere il funzionamento globale di una persona e proporre azioni concrete.

Di cosa si compone

  • Colloqui clinici e raccolta anamnestica
  • Osservazioni nei contesti significativi (quando possibile)
  • Test e questionari standardizzati adatti all’età e all’obiettivo
  • Integrazione dei dati e restituzione con un linguaggio chiaro
  • Piano operativo: accomodamenti, strategie, invii, follow-up

Una buona diagnosi non “incolla” un nome addosso: descrive pattern, punti di forza e bisogni, delineando un percorso concreto.

Differenze in sintesi

Etichetta

  • Rapida, generica, spesso valutativa
  • Descrive la persona in modo statico
  • Non offre indicazioni operative
  • Aumenta stigma e conflitti

Diagnosi

  • Processo metodico e condiviso
  • Descrive il funzionamento in relazione al contesto
  • Fornisce strategie e priorità d’intervento
  • Promuove collaborazione e diritti (scuola/lavoro)

Due vignette cliniche

Marco, 9 anni. “È svogliato.” A scuola fatica ad avviare i compiti e “si perde” nelle consegne lunghe. La diagnosi evidenzia difficoltà nelle funzioni esecutive (pianificazione, memoria di lavoro). Risultato: consegne spezzate, checklist visive, tempi mediati. In tre mesi cala l’ansia, aumentano autonomia e partecipazione.

Sara, 32 anni. “È disorganizzata e ipersensibile.” La diagnosi chiarisce un profilo Au-ADHD con sovraccarico sensoriale. Risultato: accomodamenti in ufficio (cuffie, pause strutturate), pianificazione a blocchi, supporto psicoeducativo. Migliorano performance e benessere.

Perché la diagnosi non è un’etichetta (anche quando ha un nome)

  • Accesso a tutele (PEI/PDP, accomodamenti ragionevoli, agevolazioni quando previste)
  • Linguaggio comune tra famiglia, scuola, servizi e lavoro
  • Monitoraggio: obiettivi chiari, verifiche nel tempo, aggiustamenti

La differenza è l’uso del nome: se diventa un destino, è etichetta; se apre strade, è diagnosi.

Come comunicare una diagnosi in modo rispettoso

  • Persona prima della diagnosi (“persona con…”, non “è…”)
  • Punti di forza e bisogni insieme
  • Comportamenti osservabili e contesti (quando, dove, con chi)
  • 2–3 priorità operative, realistiche, con tempi e criteri di verifica

Quando è utile richiederla

  • Dubbi persistenti su apprendimenti, attenzione, regolazione emotiva o comportamenti
  • Difficoltà che non migliorano con interventi generici
  • Necessità di documentazione per percorsi scolastici o aziendali
  • Desiderio di capire meglio se stessi e trovare strategie sostenibili

Domande frequenti

La diagnosi è un’etichetta?

No. È uno strumento per comprendere e scegliere interventi e accomodamenti adeguati.

Serve sempre il test?

Dipende dal caso: test e questionari aiutano a oggettivare, ma si valuta sempre l’obiettivo clinico.

È utile anche da adulti?

Sì: chiarisce il profilo, guida accomodamenti e strategie, riduce il senso di colpa.

Online o in presenza?

Colloqui e restituzioni possono essere online; molti test richiedono la presenza.

Hai bisogno di una diagnosi chiara?

Valutazione clinica completa con strumenti validati, restituzione scritta e indicazioni pratiche. A Modena e online.

Take-away: l’etichetta chiude, la diagnosi apre. Conoscere bene il funzionamento permette interventi efficaci e accomodamenti sostenibili.


LE MILLE FACCE DEL NEGAZIONISMO

Molti anni fa avevo trovato un video su FB, in cui passava il messaggio che le etichette di tipo neuropsichiatrico che mettimo ai bambini (DSA, ADHD, oppositivo) li limitano e che invece, proprio le loro caratteristiche li avrebbero potuti far diventare “qualcuno”.
Mi era piaciuto moltissimo, perchè lo avevo letto in senso lato, ovvero “non fermiamoci alla diagnosi, guardiamo il bambino” e lo avevo condiviso.
Poi qualcuno mi ha avvertito del fatto che questa, che sembrava innocua e anche utile, era una delle facce del negazionismo.
Il video era creato da Pensare Oltre, associazione fin troppo chiaramente legata ai gruppi di scientology, e il messaggio non era affatto quello che io credevo.
Quello che il video voleva dire era “non fate diagnosi ai vostri bambini, perchè la diagnosi li limiterà”.
Di messaggi negazionisti ne ho visti tanti in questi anni.
Dagli spot in TV alla Legge in Parlamento, in molti hanno cercato di far passare che la diagnosi è il grande male, che tutto può essere risolto con spiegazioni molto più semplici: è ADHD? Ma no, è solo mancanza di sonno! (Quanti genitori hanno sperato che fosse cosi? Alzino la mano senza vergogna perchè è su questo che i negazionisti puntano). DSA? Ma no, è solo che ti devo potenziare (a 70/80/90 euro l’ora nei loro studi ovviamente). Oppositivo? Ma no, ha solo molto carattere (quindi quando gli fai la diagnosi lo limiti in questo che è persino un pregio….).
E così, facendo leva sul desiderio dei genitori che tutto si risolva in nulla e sul senso di colpa di tacciare il figlio di “malattia mentale”, questi individui vanno instillando il dubbio che le diagnosi stiano aumentando esponenzialmente. Cosa assolutamente non vera (per questo aspetto vi rimando al bellissimo articolo dei miei amici e colleghi di Training cognitivo, che linko qui ).
Ultimo exploit ed ultima faccia del negazionismo, a mio avviso, quella trasmessa qualche giorno fa alla RAI, protagonista il Dottor Novara. Di lui si dice che è un pedagogista (invece è un laureato in lettere con tesi in Pedagogia, Santa wikipedia), che ci metterebbe in guardia contro l’eccessiva medicalizzazione dei minori.
Esordisce in una trasmissione RAI, seguita da moltissimi genitori e forse anche da qualche ragazzo, dicendo che i DSA sono malattie mentali perchè codificate nell’ICD10. 
E i genitori di ragazzi DSA o ADHD insorgono, si indignano. 
Ma sotto sotto, io lo credo davvero, qualcosa nell’inconscio si è mosso. Una vocina che dice “non sarà che lo hai portato in neuropsichiatria troppo presto? non è che hai fatto di lui un malato mentale? non è che se lo educavi meglio, se dormiva di più se…..gli evitavi di esserlo?”.
Ed eccoci qui, all’altra faccia del negazionismo.
Vi fanno credere che siete in colpa, vi fanno credere che il professionista (psichiatra o psicologo) che ha fatto la diagnosi stia limitando vostro figlio (e non aiutandolo). Vi fanno credere che state mettendo su vostro figlio la croce dello stigma di “malato”.
E voi un po cominciate a pensare che se poi fa il compito senza mappe, in fondo, può dimostrare davvero quello che vale. Che se la verifica è più corta forse è una facilitazione, che se gli comprate il lettore non state facendo il vostro lavoro da educatore.
La frittata è fatta.
Io ora mi chiedo, dopo diversi anni, in cui questi individui si aggirano per la RAI e per i social, a chi conviene? Chi ha interesse in tutto questo? Perchè?
E credo dovreste chiedervelo anche voi: genitori, professionisti…… a chi conviene far credere al mondo che queste caratteristiche non esistano? A chi conviene nasconderle e perchè?
E non ci cascate.
Non è la diagnosi che limita o stigmatizza vostro figlio, ma l’insabbiamento del problema. Non è essere DSA il problema, è la mancanza di coraggio di non pretendere che venga applicata una legge dello Stato, che gli permetta di apprendere seguendo le sue caratteristiche uniche e inimitabili. 
Non è avere l’etichetta il problema, ma quando l’etichetta pesa.
E negandola, pesa di piu.
Non ci cascate.

Mindfulness & Homeworks

Incoraggiare un bambino a meditare può sembrare un’impresa ardua, ma la meditazione, se affrontata in maniera fantasiosa e accattivante, apporta ai bambini grandi benefici. Può calmare le loro ansie, rafforzare l’autostima, liberare l’immaginazione, insegnare loro i valori di serenità e riflessione e aiutarli a crescere equilibrati e armoniosi. 
E’ anche utilissima per dilatare i tempi di attenzione, riuscire a stare più fermi e migliorare la memoria di lavoro, quindi un grande vantaggio per la scuola.

Se poi, dopo la meditazione (30 minuti) si fanno i compiti per la settimana, il gioco è fatto!

MODALITA’, ORARI E COSTI

I nostri corsi di mindfulness & homeworks per bambini e ragazzi si svolgono 1 volta alla settimana, il sabato mattina dalle ore 9,30 alle 11 (1,30 h).
Durante la prima mezzora i bambini affronteranno un protocollo di Mindfulness appositamente tagliato per la loro età, che li aiuterà a rilassarsi, concentrarsi e motivarsi. L’ora successiva verranno svolti i compiti per il lunedi o per la settimana.

Il Corso è rivolto ai bambini delle Primarie (6-11 anni)

Insegnante: Luisa Zaccarelli, Psicologa specializzanda in psicoterapia ad indirizzo adleriano, tesi di laurea basata su un protocollo MBI di Mindfulness, esperta di mindfulness.

Luogo: Via Soliani, 8/b – Modena

Il corso parte con un minimo di 2 bambini e un massimo di 5 bambini per gruppo.
E’ possibile attivare gruppi in altri orari su richiesta.

Costo : € 20 a sabato a bambino.

La mindfulness può essere svolta in gruppo o in maniera individuale, a seconda delle vostre necessità. Per le sedute individuali orari e giorni possono essere personalizzati.

Per iscrizioni o info e costi  CONTATTACI

 

Elettroshock? No grazie

Fermo restando che non esiste terapia se non c’è patologia (e essere DSA non è una patologia ma una caratteristica!) proviamo a fare un po’ di chiarezza su quanto è stato detto e pubblicato in questi giorni.

Cosa dice lo studio

In questi giorni si è diffusa la notizia di una sperimentazione effettuata dal gruppo del Prof. Vicari al Bambin Gesù su un campione di 18 bambini e adolescenti con problemi di lentezza nella lettura (dislessia evolutiva).
Tutti i bambini sono stati diagnosticati al Bambin Gesù e mostrano almeno -1.5 deviazioni standard rispetto a un normolettore per accuratezza e velocità.
La causa di questa lentezza sarebbe da ricercare in una ipoattivazione di alcune aree cerebrali dell’emisfero sinistro durante i processi fonologici e in una iperattivazione di altre aree sinistre e destre del cervello.
La stimolazione elettrica transcranica sarebbe in grado, secondo lo studio, di mettere fuori uso alcune aree e forzare altre all’azione compensatoria promuovendo la plasticità cerebrale.
Questo si traduce, secondo i dati in analisi, in un aumento della velocità di lettura e in un miglioramento significativo della accuratezza.
Il trattamento viene somministrato in contemporanea con un trattamento logopedico cognitivo (quello che tutti conosciamo) e causa in alcuni bambini effetti collaterali leggeri, che peraltro risultavano esserci anche con il solo trattamento cognitivo: mal di testa, stancheza, irritabilità, male al collo….)

E’ elettroshock?

No, assolutamente no. Quando si lavora con il cervello è normale utilizzare scariche elettriche perchè i neuroni comunicano fra loro proprio grazie a scariche chimiche che poi si traducono in passaggio di corrente.
Ogni volta che abbiamo fatto un EEG abbiamo somministrato lo stesso tipo di mini stimolazioni, che non hanno nulla a che fare con l’elettroshock e non vanno a modificare in modo permanente la struttura cerebale e neuronale (per il momento infatti si osserva l’effetto a 1 mese…dopo chissà).
Insomma un dis sarà sempre un dis, perchè, se me lo concedete, un dis è molto di più della sua lentezza nel leggere 🙂

E’ utile ?

A mio avviso allo stato attuale delle cose, no.
Nello studio restano moltissimi punti deboli, che vengono anche citati e riconosciuti nella discussione finale dell’articolo integrale(1).
Prima di tutto se la stimolazione viene somministrata insieme al trattamento cognitivo (che qualche risultato in termini di velocità di lettura lo dà anche se è pallosissimo :)) come facciamo a sapere se da sola avrà lo stesso risultato?
Poi..punto focale: nessun dato viene riferito rispetto a un miglioramento della comprensione del testo che derivi direttamente dalla velocizzazione della lettura.
E secondo me questo è centrale.
E’ vero che poter leggere in modo più veloce e accurato a volte migliora la comprensione del testo, ma moltissime volte no.
Mi aspetterei quanto meno un indagine anche su questo paramentro nel prossimo studio.
Si perchè come dicono gli stessi ricercatori questo è solo uno studio preliminare, con pochissimi soggetti e soprattutto con alcuni forti limiti.

Perchè si studiano queste cose? Vogliono cambiarci il cervello?

Non credo. Gli studi sulle stimolazioni transcraniche stanno avvenendo in ogni parte del mondo e partono dalla volontà degli scienziati di recuperare alcune patologie vere (alzheimer, ritardi cognitivi gravi, afasie o mutismi) e questo è sicuramente uno scopo nobile.
Altro è l’uso che può essere fatto nei disturbi dell’apprendimento.
Nel mondo è ormai inarrestabile un movimento che li attesta non come patologie, ma come caratteristiche neurobiologiche, come neurodiversità e, in quanto diversità, arricchimento.
La scienza su queste cose arriva sempre dopo, ma arriva.
Mi aspetto un articolo sull’evoluzione del cervello nella direzione del dis molto molto presto 🙂

Dobbiamo preoccuparci?

A mio avviso al momento e per questa cosa no.
Ma abbiamo tante altre cose per cui farlo: la scuola e la didattica sono a oggi inadeguate e non inclusive, i nostri ragazzi soffrono di senso di inadeguatezza, AID detiene ancora il monopolio sui libri digitali e moltissimi centri sono impreparati nel fare diagnosi.
Non è il tempo di smettere di fare battaglie, ma non facciamoci distrarre, combattiamo per le cose giuste!

(1)

Floriana Costanzo, Cristiana Varuzza, Serena Rossi, Stefano Sdoia, Pamela Varvara, Massimiliano Oliveri, Koch Giacomo, Stefano Vicari and Deny Menghini, “Evidence for reading improvement following tDCS treatment in children and adolescents with Dyslexia”, Restorative Neurology and Neuroscience 34 (2016) 215–226

LA SCELTA DEL TUTOR

A volte una famiglia per aiutare il suo piccolo dis ad affrontare al meglio l’iter scolastico si affida a una schiera infinita di professionisti o paga insegnanti che lo seguano in ogni materia o quasi, quando potrebbe bastare una sola figura: quella del tutor.
Come fare a sceglierlo? Ci sono degli aspetti che possiamo considerare per capire se la scelta è giusta? Come genitori quando affidiamo i nostri a un tutor cosa dobbiamo guardare?

1. Fiducia: il tutor deve veramente credere che il ragazzo che sta aiutando ce la possa fare, infatti come in tutti i rapporti umani per essere costruttivo anche in questo la fiducia deve essere reciproca. Non si può mentire su questo aspetto perché è una di quelle cose che i bambini e i ragazzi sentono a pelle.

2. Capacità di problem solving: il tutor non deve solo sottolineare i problemi senza cercare e proporre delle soluzioni: un bravo professionista non si ferma al problema, ma propone delle soluzioni.

3. Occhio ai talenti: Per quanto detto nei punti precedenti il tutor riconoscerà i punti di forza del ragazzo e partirà da questi per aiutarlo ad accettare e modificare quelli deboli, facendo sì che si trasformino in doti.

4. Competenze su stili cognitivi: il tutor conosca deve conoscere i vari stili cognitivi, li deve saper riconoscere ed essere abbastanza flessibile da adattarvisi e quindi deve saper lavorare con uno stile non suo, ognuno di noi infatti ha stili cognitivi diversi e personali, apprendiamo in modi differenti.

5. Conoscenze: il tutor deve conoscere a fondo le materie in cui il ragazzo è più carente, per poter intervenire in modo mirato ed efficace, trasmettendo le conoscenze in modo fluido, appassionato e appassionante e aiutando il ragazzo a sviluppare le relative competenze.

6. Passione: il tutor non deve ritenere che il suo sia solo un “lavoro”, ma una passione, una missione. Per dirlo brutalmente l’apprendimento passa più dalla pancia che dal cervello.

7. Autorevolezza: il tutor deve essere paziente e comprensivo, ma allo stesso tempo una guida sicura e dolcemente ferrea.

8. Autonomia: il tutor deve lavorare per aiutare il ragazzo a rendersi col tempo autonomo: non può essere la stampella a cui appoggiarsi per tutto l’iter scolastico, non deve creare una dipendenza psicologica. L’obiettivo del suo lavoro sarà quindi quello di rendersi sempre meno necessario al ragazzo con il passare del tempo.

9. Lavoro per obiettivi: il tutor deve saper guidare il ragazzo a un lavoro per obiettivi, cioè porre dei traguardi prima facilmente raggiungibili poi sempre più lontani, ma comunque alla portata del ragazzo. Se decidiamo di corre la maratona di New York per allenarci non faremo 40 km il primo giorno… Questo è l’unico modo di lavoro che può rafforzare, con il tempo, l’autostima. Il successo genera successo.

10. Reciprocità: il tutor riceve dai suoi studenti che segue quanto dà e deve saper crescere insieme ai suoi studenti.

 

Grazie a Relessica per lo splendido articolo

Le DSA sono disabilità? Una visione Europea

Non sono molti i Paesi nei quali ci sia una legislazione che si occupi in modo specifico della dislessia e, quando questo accade, la dislessia viene generalmente compresa all’interno delle disabilità più classiche, fisiche e mentali. La norma è l’assenza di disposizioni ad hoc per i disturbi specifici di apprendimento; infatti, quando vengono citati (sempre che siano
contemplati da parte di una legge) si trovano all’interno dei capitoli che trattano di disabilità in genere.
Ma può una legge creata su misura per la tutela di chi soffre di handicap fisici  essere altrettanto efficace per la tutela di chi è DSA?
E soprattutto i DSA possono essere considerati una disabilità?
Cercheremo di rispondere alla domanda, ovvero di vedere come i singoli stati Europei e nel mondo hanno risposto a questa domanda.
Paesi anglosassoni
In tema di dislessia, è cosa nota l’attenzione ormai antica che i paesi anglosassoni dedicano all’argomento.
Tuttavia, se da un lato il Regno Unito, gli USA e il Canada si sono dotati per tempo di una legislazione che tiene in debita considerazione i lavoratori e gli studenti disabili, con specifici provvedimenti nei confronti dei DSA e della
dislessia, altrettanto non si può dire per paesi come l’Australia, la Nuova Zelanda e altri membri del Commnweatlh.
L’Australia non riconosce nemmeno la dislessia come disturbo specifico di apprendimento, mentre la Nuova Zelanda, nei riguardi della dislessia, offre un panorama ancora più desolante. E la cosa è sorprendente, data la natura della lingua parlata e il livello avanzato dell’economia e della società: a fronte di una legislazione molto avanzata nel riconoscimento dei diritti civili,

è assai curioso che la dislessia non solo non sia contemplata, ma, come affermato nell’International Book of Dyslexia
, <<Most schools and teachers do not think of dyslexia asa real entity>> (Smythe at al 2004:176).
A differenza di Australia e Nuova Zelanda, il Regno Unito ha disposizioni specifiche in materia di DSA e di dislessia in particolare.
Questo è dovuto all’attenzione che la dislessia suscita da lungo tempo nelle isole britanniche.

La dislessia è regolata dal Disability Discrimination Act 1995, integrato con lo SpecialEducational Needs and Disability Act 2001
I DSA sono specificamente trattati all’interno delle leggi in questione e agli studenti e agli adulti DSA viene garantito un
supporto adeguato pari a quello previsto per le persone disabili.
Tra i paesi anglosassoni, gli USA sono quelli che dispongono della legislazione più esaustiva in materia di DSA, ancor più del Regno Unito. I DSA in USA sono regolati dall’ Individual with Disabilities Education Act (IDEA), emendato nel 2004 in seguito alla promulgazione nel 2001 del No Child Left Behind Act,e dall’American with Disabilities Act1990 (ADA) emendato nel 2008. Inoltre durante la predidenza di George W. Bush la campagna No Child Left Behindha dato forte impulso ad un’ulteriore discussione dei DSA.
Il Canada, paese multietnico e plurilingue, ha scoperto la dislessia da parecchio tempo. In Canada la terminologia è un poco diversa: in genere non si usa il termine dislessia, ma piuttosto “learning disability”.
Particolarmente sviluppata in tutte le provincie del Canada è la politica dell’inclusione (mainstreaming). Esattamente
come negli USA, anche in Canada il fulcro delle attività in favore della dislessia è costituito dalladiagnosi e dalla realizzazione di un Individualized Education Program(IEP).
Le misure dispensative e compensative previste dalla legge sono molte e comprendono anche la concessione di maggior tempo agli esami o l’esenzione da certe attività.
Paesi Nordici
In Danimarca, dove la dislessia è più nota con il termine di “cecità alle parole”(ordblindhed), vi sono una serie di leggi specifiche sull’educazione che, tra l’altro, regolano e tutelano i diritti degli studenti con disabilità. I DSA sono considerati disabilità e rientrano all’interno delle tutele delle leggi più generali.
In Norvegia la situazione è simile, con un certo grado di consapevolezza in ambito scolastico. Tuttavia questa è considerevolmente minore a livello universitario e,apparentemente, la dislessia per gli adulti lavoratori non è presa in considerazione dal punto di vista legale in quanto disabilità on in quanto disturbo tout court.
La Francia
La Francia è sorprendetemente “indietro” sotto il profilo legislativo e di riconoscimento stesso della dislessia.
Non esistono insegnanti, strutture e nemmeno fondi statali a favore di quelli che nel Regno Unito vengono considerati
Special Educational Needs. Tutt’al più, a giudizio degli insegnanti (e si noti l’inisita arbitrarietà di tale giudizio) si può chiedere aiuto al Réseau d’Aides Spécialisées aux Élèves en Difficulté(RASED).
Solo nel 2001 è arrivato il primo rapporto sulla dislessia dietro domanda del Ministerodell’Educazione, un’indagine nota come
Rapport Ringard. Il rapporto ha dato vita al Plan d’action pour les enfants atteints d’un trouble spécifique du langage, presentato dal ministro dell’educazione. Questo testo ufficializza l’esistenza della dislessia all’interno dell’ambiente scolastico.
In Francia, incredibilmente per un paese occidentale, risulta ancora del tutto aperta la discussione sulla reale esistenza della dislessia.
Germania e Svizzera
La situazione in Germania è complicata per via della sua storia di frammentazione politica e per il fatto che ogni distretto fa capo a se stesso. Le leggi quindi non risultano unitarie, infatti alcuni Lander prevedono ore aggiuntive da svolgere in orario
extra-scolastico, mentre altri hanno integrato l’assistenza agli studenti con DSA direttamente all’interno dell’attività curriculari.
In altri termini sembra non esistere un equivalente del Piano Didattico Personalizzato italiano o del IEP degli USA

La stessa frammentazione la ritroviamo anche in Svizzera, per via della presenza dei cantoni.

Spagna
La Spagna considera la dislessia una disabilità, benché non vi sia chiarezza in merito. In questo la Spagna si allinea con gran parte degli altri paesi europei, dove non si fa menzione di dislessia all’interno della legislazione corrente ma si tende a trattarla all’interno delle leggi studiate per le disabilità fisiche. Tuttavia sono stati recentemente prodotti documenti informali che indicano come gli studenti dislessici possano essere inquadrati all’interno dei programmi per gli studenti con bisogni speciali (Gimenez-Buiza 2004).
In ogni caso la parola dislessia non compare all’interno della legislazione spagnola
Paesi dell’Est europeo
I Paesi dell’Europa dell’est costituiscono, al contrario della Francia e di Australia e Nuova Zelanda, una sorpresa in positivo. Sono infatti accomunati dall’elevato grado di consapevolezza riguardo la dislessia.
In Bulgaria, ad esempio, sono presenti programmi di screening già dalle scuole primarie e tutte le attività di recupero sono gestite in modalità inclusiva, direttamente all’interno della scuola.
In Croazia gli screening sono addirittura a livello della scuola materna e riguardano tutti i bambini, oltre a essere obbligatorio per legge. La dislessia ha una sua dignità legislativa, cosa rara come abbiamo visto sopra, ma gli accorgimenti presi in aiuto dei ragazzi rimangono circoscritti alle scuole primarie.
Molte poche sono infatti le misure per la scuola secondaria, ma probabilmente anche perche si ottengono alte percentuali di successo con il riconoscimento precoce.
Tra questi paesi sono L’Ungheria riconosce il dislessico come disabile (sotto la denominazione di “ritardo”), ma gli aiuti economici dello stato non vanno alle famiglie, quanto alle scuole che devono gestire questi studenti con handicap (cosi è scritto).
Qualche riflessione
Come abbiamo visto da un lato accostare i DSA alle disabilità generiche è comprensibile, perché infatti gli studenti e gli adulti con DSA sperimentano una condizione di svantaggio rispetto agli individui che la legge definisce “normodotati”.
In talmodo il DSA diviene immediatamente oggetto di tutela da parte dello Stato e può usufruire dei provvedimenti già ideati a favore dei disabili: non è necessario attendere che vengano create nuove leggi.
Tipicamente, cioè, il legislatore sancisce che i DSA sono una disabilità e automaticamente i soggetti DSA possono usufruire di tutto il patrimonio di tutele già previsto per i disabili.
D’altro canto, al di fuori delle istituzioni, la comunità scientifica e le associazioni pro-dislessia dibattono intensamente sulla validità di questo accostamento.
Le domande attorno alle quali si sviluppano le maggiori critiche è: i DSA sono una disabilità? E, più in profondità: che cos’è la disabilità?
Se consideriamo la disabilità in senso medico, che è quello secondo cui funziona la legge, la sua definizione è “Status patologico, devianterispetto alla normalità non patologica.
Un deficit”, ma noi preferiamo la definizione sociologica : “rapporto tra le capacità dell’inidividuo e l’ambiente in cui opera”.

Ma i DSA sono una disabilità? Ed è giusto chiedere una indennità per questo?
Se consideriamo l’approccio medico la nostra risposta è sicuramente NO.
E riteniamo che sia necessario che il legislatore presti più attenzione a una definizione che sta più in ambito sociologico.
Il DSA manifesta la sua diversità qualora l’ambiente non offra caratteristiche tali da poter essere incluso negli ambienti comuni.
In questo senso il denaro e le risorse non dovrebbero essere dati alle famiglie per il “recupero” o addirittura la “guarigione” dei DSA, ma alle istituzioni, perchè possano modificare l’ambiente per renderlo adatto alla valorizzazione delle differenze.
Quindi, in ambiente scolastico l’informatizzazione, la sostitutizione dei libri cartacei con i libri in PDF, l’introduzione di LIM per tutte le classi, la formazione del personale docente e l’applicazione corretta della legge 170/201o, potrebbero annullare del tutto la difficoltà dei bambini e ragazzi con DSA.
Per quanto ci riguarda è assurdo anche pensare a misure per la disabilità in ambiente lavorativo.
Anche in questo caso un maggiore successo ci pare possa essere garantito da un corretto orientamento scolastico, da una gestione migliore dei talenti della persona, per il rafforzamento dell’autostima e quindi delle competenze di ognuno.
Gli strumenti informatici sono già abbondantemente presenti nei settori produttivi, e non riteniamo debbano essere previsti ulteriori tutele.
Non dimentichiamo che le DSA vengono diagnosticate solo a fronte di un QI maggiore o uguale a 85, che consente alla persona di elaborare strategie autonome sia funzionali che organizzative.
Per tutto questo diciamo SI a un legale riconoscimento delle DSA, ma NO, assolutamente NO all’equiparazione di queste alla disabilità fisica o cognitiva.

 Bibliografia (e per approfondire)

AA.VV. 2009 –A guide to Disability Rights Laws, U.S. Department of Justice, Civil Rights Division, Washingt
Bates P., Davis F. 2004 –Social capital, social inclusion and services for people with learning disabilities, in “Disability & Society” vol. 19/3
Bruyère S. M., Erickson W. A., Van Looy S. 2004 –Comparative Study of Workplace Policy and Practices Contributing to Disability nondiscrimination, in “Rehabilitation Psychology” vol 49/1: 28-38
Canguilhem G. 1966 [1998] –Le normal et le pathologique, Paris, Presse universitaire deFrance. Trad. it.Il normale e il patologico, Torino, Einaudi
Giménez de la Peña A., Buiza J.J. 2004 –Dyslexia in Spain, in Smythe 2004
Gregg N., Mather N. 2002 –Discrimination against high achieving adults with learning disabilities: a tragic consequence of public law interpretation, Learning Disabilities Association of America, online paper

Mudrick N. 1997 –Employment discrimination laws for disability: utilization and outcome, in “Annals of the American Academy of Political and Social Science” vol. 549:53-70
Pollak D. 2005 -Una visione d’insieme della dislessia nel Regno Unito e negli altri paesi d’Europa, online slides from AID conference

Yell L. M., Rogers D., Rogers Lodge E. 1998 –The Legal History of Special Education, in “Remedial and Special Education” col 19 vol. 4: 219-228

Corso di meditazione per adulti

meditazione tabellaLa meditazione (dal latino meditatio, riflessione) è, in generale, la pratica che attraverso una maggiore padronanza delle attività della mente, essa smette il suo usuale chiacchierio di sottofondo e diviene assolutamente acquietata, pacifica. Lo stato di meditazione viene raggiunto con la totale concentrazione dell’attenzione nel momento presente. È una pratica volta quindi all’auto-realizzazione.

Durante gli incontri, olte ad insegnare la pratica di base, si potenzierà l’addestramento in autonomia della consapevolezza non-giudicante momento per momento utile nella gestione quotidiana dello stress, degli impegni, dell’emotività e delle relazioni con i pari e con i figli. Al termine di ogni sessione di meditazione, spazio per domande o condivisioni.

 

Modalità, orari e costi

I nostri corsi di meditazione per adulti si svolgeranno 1 volta alla settimana, con orario serale, e avranno la durata di 8 settimane.

I giorni  individuati per il corso è il MERCOLEDI , dalle ore 19 alle 20,30.

In alternativa i corsi saranno tenuti il SABATO MATTINA, dalle ore 10 alle 11,30

Il costo del corso è di € 160,00 per gli 8 incontri

 

Insegnante: Giuseppe Corbelli, laureato in Scienze e Tecniche Psicologiche e esperto di meditazione Vipassana.

Luogo: Strada Contrada, 127, sede Quartocervello

Il corso partirà al raggiungimento di almeno 6 iscritti.

Per iscrizioni e info CONTATTACI

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